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mercoledì 26 giugno 2013

La nostalgia del Cielo. Come un albero piantato in terra con radici profonde e teso con i rami al cielo più alto

La parola di Kikuo Takano: «è radicata nelle cose: il mondo la abita e la percorre nelle sue forme, nei suoi doni, nella sua luce, nei suoi spazi. Ma, attraverso le cose, la parola di Takano aspira all’altrove, come un albero piantato in terra con radici profonde e teso con i rami al cielo più alto. Questa tensione è anche un movimento d’amore: mentre interroga il mistero dell’Essere, Takano non dimentica mai gli esseri concreti: uomini, animali, fiori, frutti, foglie». (Lagazzi)

Scrivere poesie «vuol dire innanzitutto soffermarmi con uno stupore profondamente fresco, di fronte a ciò che esiste, accettare insieme la molteplicità e la continuità degli esseri, fissare su di loro lo sguardo fino a quando svaniscono. La poesia era per me l’unica via per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli esseri, legami che più fissavo più perdevo (ma tutto diventava limpido): era la via misteriosa in cui era possibile trovare un grande conforto».
Lo «stupore fresco» davanti alla realtà è il germoglio di una “povertà” «mai spoglia di bellezza» (D.Rondoni), «Se fisso un albero che ha la cima tesa al cielo e la radice sprofondata a terra, osservo come due forze divergenti convergano in una: il risultato è l’albero in piedi, senza che si possa distinguere tra il desiderio del cielo e quello della terra».
«Ma non potremmo avere anche noi un’anima / con cui tendere al cielo? / non potremmo avere un’anima / piccola ma decisa / a riflettere il cielo, / come l’acqua torbida dello stagno?».
«Il cuore sarà la bilancia / su cui pesare il cielo, l’invisibile cielo?».
«Poi negli oscuri / alti fondali, è proprio vero! / dal basso verso l’alto / cade neve, / dal basso candida neve / all’alto cade».
Il tumulto delle cose sfronda aperture nuove, aperte al balzo e alla raccolta delle stelle: «Guizzanti come frutti d’acetosella, / dei fanciulli s’immergono nel mare, / colgono le asterie e le lanciano al cielo / gridando d’aver preso le stelle».

«Ma la mia anima è un foro / senza fondo, mai colmato / da ciò ch’è palpabile e visibile. / Se tu sei senza limiti, / l’infinito / che non si può toccare né vedere, / ti voglio, voglio te, / come lo scemo / che aspetta il mattino / e lo desidera intenso – / voglio soltanto te».  Mi trasformo in arco, sono proprio l’arco / sui cui poggia la freccia ancora accesa / che ha bruciato ogni mestizia, / e la punta dilatata verso di te. / Per scrutare l’invisibile incendio / se tu sei invisibile, / per scrutare l’infinito incendio / se tu sei infinito, / se tu sei assente, ma tanto / assente da non potere neppure ardere, / voglio scrutare questa infiammata assenza, / e davvero chiunque tu sia, / ti penso insieme all’illogicità / che in te arde». Il «wabi», nocciolo di semplicità e altezza, «è ardente di tutta la esperienza della desolazione della terra, eppure non piega il soggetto a corteggiare l’afasia o la cenere, come avviene in altri». (D.Rondoni).
Ci muoviamo in questa povertà mendicante, verso l’Altro, l’Assoluto, in cammino su un sentiero aperto e la tensione verso Dio, per cercare «di afferrare l’azzurro / del mare»: «Come gli alberi che chiedono / sulla cima la luce / e la negano alla radice, / perché anch’io vivo / cercando Dio con le parole, / respingendolo dall’anima». In tutti noi c'è un luogo di attesa, di dramma inconcluso, di «infiammata assenza», molto simile al «quasi nulla» leopardiano, e Takano, per dirlo con le parole di Annamaria Ferramosca: «scrive poesia contando su tre solidi cardini di identificazione della parola: poesia come costante domanda di senso, attesa tenace di assoluto; poesia come unica via per l’ascolto del mistero che attraverso gli esseri, […] poesia infine, come incessante lavoro sul “rinascere insieme”, riconoscendo quei barlumi di senso nelle immagini del quotidiano, della natura, metafore semplici, da cui Takano fa sgorgare senso […] così scarno a volte da sfiorare la purezza del sacro».

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