Izet Sarajlíc guardo le date delle tue poesie.
Sono geloso del tempo che tu hai visto e io no, sono geloso dei poeti
che ho amato perché tu li hai amati di più. Bisogna abitare in una città
fluviale per trovarsi in poesia a una confluenza di
acque correnti. In te scorrono russi, tedeschi, spagnoli, francesi e
qualche italiano, tu li contieni. Ho bevuto con te e così, per la
misteriosa proprietà transitiva dei poeti e dei bicchieri, io mi sono
trovato seduto a tavole remote, dove mai mi sarei azzardato a chiedere
permesso. Dietro un nostro bicchiere ho potuto stare con Bohumil Hrabal
nella birreria di Praga, al suo tavolo che non ospitava scrittori né
lettori, ma solo bevitori amici.
Ho potuto sapere come lui portava il
vetro all’altezza dei denti e come ci appoggiava sopra il silenzio. Ho
tirato tardi con Nazim Hikmet, Alfonso Gatto, Esenin, all’ombra dei
nostri bicchieri e ora so con che dita si stropicciavano gli occhi. La
storia del nostro millenovecento si è tanto preoccupata di infilarsi
nelle case, staccare genitori da figli, mogli da mariti, stabilire diete
di scarsità nelle cucine spente, distribuendo addii come biglietti da
visita. Questa invadente storia maggiore nei tuoi versi è ridotta a
margine slabbrato della pagina. Conta di più la storia minore di avere
amato una donna, di avere tremato meno per gli scoppi delle granate e
molto di più per la febbre di una figlia, per la tosse notturna di un
nipotino. È potente per te, molto più che per me, l’esclusiva della vita
personale, prepotente il diritto alla felicità, scippata al volo,
gustata pure in piena penuria. “Come ci serve poco per avere / tutto ciò
che prima di noi non ha avuto nessuno”. ma la felicità, quella è
strepitosamente nuova, vergine per il poeta e per ognuno di noi che è
poeta quando sa riconoscerla in tempo, mentre succede, mentre in cucina
una pentola bolle. Poeta è chi trova la felicità nella stanza accanto e
mai dice dopo: quelli erano bei tempi. Mai la felicità è retroattiva, o
riconosciuta all’istante o perduta. Ma quando è insopportabile la pena,
allora servi tu, poeta, tu e non un romanziere che la tira in lungo, tu
con dei versi da imprimere a memoria quando si è alle strette e viene
tolta la biblioteca e la luce del giorno. Là servi tu che puoi
rispondere di tutto. Ricordi Izet la fila davanti alla prigione di
Leningrad, era il cinquantasette e Anna Achmatova da un anno si
incolonnava insieme ai parenti dei prigionieri nella fila delle visite,
al freddo. E qualcuno la riconosce, è lei la famosa poeta, perché in
Russia i poeti erano famosi. E una donna che sta in fila dietro di lei, e
che non l’ha mai sentita nominare, le domanda a bassa voce: “A eto vi
mojete opisat’?”, “e questo voi lo potete descrivere?”, e lei risponde
con altrettanto soffio: “Mogù”, “posso”. E finisce il racconto
scrivendo: “Allora qualcosa di simile a un sorriso scivolò su quello che
era stato un volto”.
Ecco, mio Izet, dentro ogni tuo verso di guerra
subita, di lutto, c’è la risposta alla domanda di uno come me che sta in
qualche fila all’addiaccio delle molte prigioni e chiede: “Questo voi
potete descriverlo?” e tu con la carta piena del segreto dell’aria,
rispondi: “Mogù”, “posso”. Da te imparo di nuovo a dire: amo. A
cinquant’anni bisogna pronunciarlo spesso, in quante più lingue
possibile, lavandosi i denti al mattino, sciacquandoli bene e poi
asciugandoli con l’aria di quel verbo all’indicativo presente. Tutte le
tue poesie vengono da questa igiene del verbo amare, da questa soglia
delle labbra. tuo il vino che dà profondità ai nostri occhi, un grano
d’infrarosso per vedere al buio.
(dall’introduzione di Erri De Luca, Izet Sarajlíc, Qualcuno ha suonato)
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