La parola di Kikuo Takano: «è radicata nelle cose: il
mondo la abita e la percorre nelle sue forme, nei suoi doni, nella sua
luce, nei suoi spazi. Ma, attraverso le cose, la parola di Takano aspira
all’altrove, come un albero piantato in terra con radici profonde e
teso con i rami al cielo più alto. Questa tensione è anche un movimento
d’amore: mentre interroga il mistero dell’Essere, Takano non dimentica
mai gli esseri concreti: uomini, animali, fiori, frutti, foglie». (Lagazzi)
Scrivere poesie «vuol dire innanzitutto soffermarmi con uno
stupore profondamente fresco, di fronte a ciò che esiste, accettare
insieme la molteplicità e la continuità degli esseri, fissare su di loro
lo sguardo fino a quando svaniscono. La poesia era per me l’unica via
per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli
esseri, legami che più fissavo più perdevo (ma tutto diventava limpido):
era la via misteriosa in cui era possibile trovare un grande conforto».
Lo «stupore
fresco» davanti alla realtà è il germoglio di una “povertà” «mai spoglia
di bellezza» (D.Rondoni), «Se fisso un
albero che ha la cima tesa al cielo e la radice sprofondata a terra,
osservo come due forze divergenti convergano in una: il risultato è
l’albero in piedi, senza che si possa distinguere tra il desiderio del
cielo e quello della terra».
«Ma non potremmo avere anche noi
un’anima / con cui tendere al cielo? / non potremmo avere un’anima /
piccola ma decisa / a riflettere il cielo, / come l’acqua torbida dello
stagno?».
«Il cuore sarà la bilancia / su cui
pesare il cielo, l’invisibile cielo?».
«Poi negli oscuri / alti fondali, è proprio vero! /
dal basso verso l’alto / cade neve, / dal basso candida neve / all’alto
cade».
Il tumulto delle
cose sfronda aperture nuove, aperte al balzo e alla raccolta delle
stelle: «Guizzanti come frutti d’acetosella, / dei fanciulli s’immergono
nel mare, / colgono le asterie e le lanciano al cielo / gridando d’aver
preso le stelle».
«Ma la mia anima è un foro / senza
fondo, mai colmato / da ciò ch’è palpabile e visibile. / Se tu sei senza
limiti, / l’infinito / che non si può toccare né vedere, / ti voglio,
voglio te, / come lo scemo / che aspetta il mattino / e lo desidera
intenso – / voglio soltanto te». Mi trasformo in arco, sono proprio
l’arco / sui cui poggia la freccia ancora accesa / che ha bruciato ogni
mestizia, / e la punta dilatata verso di te. / Per scrutare l’invisibile
incendio / se tu sei invisibile, / per scrutare l’infinito incendio /
se tu sei infinito, / se tu sei assente, ma tanto / assente da non
potere neppure ardere, / voglio scrutare questa infiammata assenza, / e
davvero chiunque tu sia, / ti penso insieme all’illogicità / che in te
arde». Il «wabi»,
nocciolo di semplicità e altezza, «è ardente di tutta la esperienza
della desolazione della terra, eppure non piega il soggetto a
corteggiare l’afasia o la cenere, come avviene in altri». (D.Rondoni).
Ci muoviamo in questa povertà mendicante, verso l’Altro, l’Assoluto, in cammino su un sentiero aperto e la tensione verso Dio, per cercare «di afferrare
l’azzurro / del mare»: «Come gli alberi che chiedono / sulla cima la
luce / e la negano alla radice, / perché anch’io vivo / cercando Dio con
le parole, / respingendolo dall’anima». In tutti noi c'è un luogo di attesa,
di dramma inconcluso, di «infiammata assenza», molto simile al
«quasi nulla» leopardiano, e Takano, per dirlo con le parole di Annamaria Ferramosca: «scrive poesia contando su tre solidi
cardini di identificazione della parola: poesia come costante domanda di
senso, attesa tenace di assoluto; poesia come unica via per l’ascolto
del mistero che attraverso gli esseri, […] poesia infine, come
incessante lavoro sul “rinascere insieme”, riconoscendo quei barlumi di
senso nelle immagini del quotidiano, della natura, metafore semplici, da
cui Takano fa sgorgare senso […] così scarno a volte da sfiorare la
purezza del sacro».